"Mancano le
aule" "Piove dal soffitto" "Genitori protestano per il caro
libri" "Gli zaini pesanti deformano la schiena" "Docenti
precari organizzano sit in davanti al ministero"... Questi i titoli dei
servizi sulle reti televisive nazionali e locali nel primo giorno di scuola.
Tutto vero! Eppure
nei miei ricordi c'è dell'altro.
Ho insegnato
matematica e scienze per più di vent'anni nella scuola media statale “Gaio
Cecilio Secondo” di Roma , quartiere Tuscolano, e il primo giorno di scuola di
questi anni lo ricordo così.
Noi professori
nel grande atrio stavamo pronti ad attendere gli alunni, con i registri in mano
nuovi di zecca; quello personale di colore blu nel quale avremmo dovuto
trascrivere i nomi degli allievi e registrare le attività svolte con le
valutazioni delle prove scritte e orali, e poi il registro grande di classe:
rosso, con una copertina cartonata plastificata così pesante che se per
distrazione ti cadeva di taglio su un piede, procurava minimo minimo una
frattura alle dita, ancora libere da calze e scarpe per via della temperatura
quasi estiva.
La porta di
ingresso della scuola, inserita in una parete completamente vetrata permetteva
di vedere e anche di sentire quel che accadeva fuori.
Una massa di
ragazzini si accalcava contro la porta: c'era chi era arrivato presto per
essere il primo ad entrare, come volesse battere un record; altri in leggero
ritardo sui mattinieri spintonavano, urlavano, dando botte qua e là con lo
zaino ai malcapitati che si trovavano sulla rotta che puntava dritto all'
ingresso. Quando ancora non erano state messe le porte antipanico, il battente
mobile si apriva verso l'interno e il temerario bidello, pardon, ausiliario,
che avrebbe dovuto aprire al suono della prima campanella, doveva essere un
vero atleta per ruotare la maniglia e arretrare con un salto laterale che gli
facesse evitare di essere schiacciato dal fiume in piena degli studenti che si
precipitavano dentro la scuola. Che entusiasmo. che desiderio di imparare!
Sembra vero! Ho sempre pensato che i ragazzi concentrassero in quei pochi
istanti dell'inizio dell'anno scolastico tutta l'energia che avrebbero dovuto
distribuire nei 210 giorni rimanenti.
Conoscevo bene
gli alunni della seconda e della terza e anche molti della prima, spesso
fratelli o parenti di miei ex studenti. E siccome da bambina avevo sempre
odiato i compiti per le vacanze, diventata insegnante non ne ho mai assegnati;
chiedevo solo ai ragazzi di tenere gli occhi bene aperti sul luogo in cui passavano
l'estate e di portate qualche oggetto che facesse vivere anche agli altri
compagni le bellezze naturali di quel posto. La prima mattinata trascorreva
perciò con questi "racconti dell'estate"; c'era serenità, allegria in
classe e i muri dell'aula si riempivano di cartelloni con fotografie, rami di
arbusti profumati, conchiglie... che restavano attaccati per alcune settimane
quasi a volerci ricordare di mantenere tutto l'anno quel clima festoso del
primo giorno.
Dopo tanti anni
trascorsi alla “Cecilio Secondo”, sento il desiderio di confrontarmi con una
realtà diversa e chiedo il trasferimento nel “1°CTP Nelson Mandela”, una scuola
frequentata da adulti migranti che si trova nel quartiere Esquilino . Mi
assegnano un corso di licenza media, che dura solo un anno e prepara gli
studenti al conseguimento del diploma. E' il settembre del 2003 e mi accingo ad
affrontare il primo giorno di scuola, un primo giorno di scuola per me davvero
straordinario.
In segreteria mi
consegnano solo un foglio con la lista degli iscritti e mi reco in classe ad
aspettare gli alunni. L'aula è vuota, la porta aperta; fanno capolino
timidamente donne e uomini, più o meno giovani, con un foglietto in mano. Senza
proferire parola me lo mostrano e io controllo se quel nome a volte per me di
difficile lettura sta pure sulla mia lista: Abdhullà, Mohamed, Xu, Saravan,
Jeorgi... Sì, devono restare qui, sono loro i miei nuovi studenti. Non hanno
zaini pesanti, righe con cui fare gli spadaccini, quadernoni... soltanto una
penna, un piccolo block notes, alcuni nulla. Non si conoscono, non mi conoscono,
si guardano, mi guardano: silenzio totale. Non sono abituata al silenzio in
classe e allora mi presento rivolgendomi molto lentamente a ciascuno di loro: io mi chiamo Carla, e tu? Cominciano a
rispondere e a dire i loro nomi, qualcuno non capisce. Non so che fare e mi
viene l'idea di chiedergli: do you speak
English? gli occhi gli si illuminano, finalmente può comunicare e risponde
felice: YES!!! ma ahimè io non parlo
quasi per niente l' inglese e gli dico: io
NO!!! Il tempo di un attimo... e scoppia una risata generale. Evviva,
abbiamo rotto il ghiaccio, siamo alla pari. Adesso tutti vogliono dire qualcosa, raccontare di
sé, del loro Paese di provenienza, del perché si sono iscritti a scuola...
Ce l'ho ancora
in testa quella risata schietta, genuina, liberatoria per tutti. Che lezione mi
hanno dato questi studenti migranti il primo giorno di scuola! Chi aveva da
imparare di più: io o loro? Dopo tanti anni non so dare una risposta a questo
interrogativo, ma so per certo che non possiamo chiudere gli occhi, le orecchie
e il cuore al Sud del mondo. Carla Degli
Esposti
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