sabato 3 ottobre 2009

Riflessioni sul racconto di Sr. Petra

Nel leggere il racconto di suor Petra sono rimasto colpito da due cose: l’estrema concretezza dei termini di riferimento ed il gran senso di coralità che traspira dalle sue parole. La crescita dei figli è commisurata ad eventi ordinari (lavorare, dormire, mangiare) e ad unità di misura fatte di cose quotidiane (il numero di pillole, la quantità di cibo). Il problema di avere una scuola poi è un problema del “villaggio” come organismo collettivo e la voce del villaggio in quanto tale è molto efficacemente rappresentata da suor Petra nel suo racconto-collage. Figli e scuola sono argomenti all’ordine del giorno anche da noi.


Le cronache degli ultimi mesi sono state piene di episodi di violenza giovanile, di bullismo scolastico, di propositi di riforma della scuola (l’ennesima in pochi anni …) e di movimenti di opposizione alla riforma e nel leggere di tutto questo si ha a volte la frustrante sensazione di blocco, la stanca impressione di già visto, cresce lo scetticismo e la rassegnata accettazione del “così va il mondo …”. Abbiamo spesso detto da queste pagine che la missione dell’OPAM, oltre che quella di aiutare i Paesi del Sud del Mondo nel loro sforzo di alfabetizzazione è - complementare ed altrettanto importante – anche quella di favorire la conoscenza reciproca ed il reciproco arricchimento, convinti come siamo che noi abbiamo da dare a loro tanto quanto loro hanno da dare a noi. Scaviamo allora dentro le parole che suor Petra ci racconta, per vedere se per caso non ci sia qualche ricchezza per noi.
Partirei da qui: “a volte questa nostra miseria ci rende duri al punto di farci attaccare alle cose materiali e farci scordare che la cosa più preziosa è mettere i figli nella condizione di crescere veramente e prepararsi un futuro migliore del nostro...”. Non avremo forse la miseria materiale che caratterizza ampie parti dell’Africa sub-sahariana (anche se le statistiche dicono che il numero di poveri aumenta anche nel nostro Paese: pensionati al minimo, sotto-occupati, famiglie in difficoltà) ma a me sembra che anche da noi spesso ci sia qualcosa che ci rende duri nei confronti del futuro dei nostri figli.
Sono sicuro che nessuno di noi ammetterebbe di non preoccuparsi del futuro dei propri figli, ma evidentemente ci dev’essere qualcosa che non va, al di là della nostra buona fede. Abbiamo perso qualcosa, qualcosa ci sfugge. Io vorrei suggerire che forse ci mancano quella concretezza e quel senso di comunità che invece sembrano caratterizzare in maniera così evidente le donne africane di cui Petra ci racconta. Credo che i nostri figli ne abbiano le orecchie piene di fervorini moralisti, che danno l’impressione di scivolare come l’acqua sulle papere, se è vero lo sbalordimento del funzionario di Polizia davanti all’impressione di superficialità e di assenza di coscienza del gesto manifestati da ragazzi che per sola noia bruciano viva una persona. Forse dovremmo ricominciare dalle cose più semplici, come parlare della vita vera, fin da quando sono piccoli, senza alibi né se e né ma. Impegni piccoli e progressivi, come tenere pulita ed ordinata la propria classe (nessuno è mai morto per aver preso in mano una scopa o uno straccetto imbevuto) o la propria stanza. Non ho certo nostalgia degli anni bui del lavoro minorile ed i nostri lettori sanno quanto impegno mettiamo perché i nostri progetti evitino il completo asservimento dei ragazzi e delle ragazze africane alle dure necessità economiche delle loro famiglie. Tuttavia ho forte l’impressione che quell’ “alzare gli occhi nel campo, al tramonto del sole, e rendersi conto che ‘sti figli sono riusciti a fare quasi il lavoro di un adulto” sia qualcosa che manca ai nostri figli. Impegno serio, anche duro e non per essere i primi, i vincenti ma perché avere cura del mondo è giusto, ci ancora alla realtà, conferisce valore alle cose e costruisce la base della nostra felicità.
Dalle donne di suor Petra potremmo anche imparare a mettere da parte quel nostro Io così ingombrante e riscoprire la gioia del Noi, costituito dai tanti soggetti collettivi in cui si rappresenta la nostra vita e la nostra stessa identità: dalla coppia alla famiglia e su fino alle comunità sociali, civili e politiche. Se le nostre famiglie non sono un Noi ma solo un insieme di Io, come potremmo mai pensare che qualche ora in più di Educazione Civica all’anno risolva le cose? Se la scuola – comunità educante – non viene efficacemente difesa nei confronti delle logiche economiche dal potere politico ed è aggredita e delegittimata dai genitori stessi, cosa potrà salvare la nostra società?
E’ un ammonimento perciò ancora più grave quello che ci giunge dall’Africa: “Se qualcuno ci aiuta, tireremo su i muri di una scuola e così facendo daremo le basi a i nostri figli per poter crescere anche dentro.... “
Credo che anche noi abbiamo mura da ricostruire ed un’attenzione particolare da dedicare a quella “crescita di dentro” di cui si sente così acutamente il bisogno. Abbiamo risolto i problemi di crescita materiale e stiamo coltivando una generazione di figli ben nutriti ma analfabeti affettivi ed – ahimè – anche effettivi. Confusi da un’inutile ipertrofia di contenuti, non sono educati a chinarsi con attenzione e con passione sulle cose vicine, sulla realtà, a rivolgersi anche e soprattutto al “perché” e al “che significa questo per me”. Chiamati dai modelli mediatici a cercare la strada più breve possibile per emergere ed essere vincitori, i nostri ragazzi non sviluppano alcun gusto per il lavoro metodico, originale e personale, per la riflessione, per il bene comune.
Tra i tanti torti che possiamo avere nei confronti dell’Africa, il più iniquo potrebbe essere proprio quello di esportare questi modelli di successo, perdendo nel contempo la possibilità di essere fecondati dal loro spontaneo senso di meraviglia di fronte alla vita.
Fabrizio Consorti

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