mercoledì 21 aprile 2010

Vivere la crisi come occasione

Aveva ragione il nostro inascoltato fondatore e oggi egli potrebbe ripetere le parole del salmo che recita: “Ah, se il mio popolo mi ascoltasse!” Tante volte da queste pagine abbiamo fatto eco alle parole di don Carlo: Per frenare il flusso migratorio, cioè la diaspora dei poveri che dal terzo mondo si riversano in Europa cercando di sfuggire alla fame e alla violenza, non c’è che un mezzo: creare nei Paesi d’origine condizioni di vita che garantiscano oltre alla sopravvivenza, una vita decorosa per tutti. Perché è nell’interesse dei Paesi ricchi aiutare quelli poveri. Non solo con vaghe promesse.
Lo diceva a modo suo anche Alessandro Manzoni, un secolo e mezzo fa, in una pagina de ‘I Promessi Sposi’: “Fate del bene a quanti più potete e vi seguirà tanto più spesso d’incontrare dei volti che vi mettono allegria”…e non paura o malcelata compassione.

Non bastano però le buone intenzioni per aiutare chi è spinto ad emigrare in questa pur generosa Europa, afflitta in proprio da crisi ricorrenti (e quella che stiamo vivendo non scherza!) se in pratica, per fare un solo esempio, si tagliano i contributi alla cooperazione internazionale, o si distribuiscono aiuti a pioggia per cui, come sovente accade, piove sul bagnato. O per essere chiari, finiscono nelle tasche di chi ha già del suo.
L’aiuto che don Carlo suggeriva di dare alle nazioni povere era anzitutto curare alla radice un male endemico, insegnando a queste genti come risollevarsi dall’indigenza: lotta pacifica (alla maniera di Gandhi) contro l’analfabetismo di ogni tipo, che agevola lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per rendere i poveri protagonisti dello sviluppo liberandoli in tal modo dalla schiavitù dell’ignoranza. E’ così che si crea un futuro più umano.
“Negli anni della missione nelle vaste regioni dell’Amazzonia - diceva don Carlo - vedevo quelle fertili terre restare improduttive per il semplice fatto che i suoi abitanti non sapevano lavorarle come si dovrebbe”. Verità sacrosanta? Mica tanto, se uomini politici non hanno saputo o voluto recepirla. Eppure la lezione era stata impartita dallo stesso Paolo VI che nella Pasqua del 1967 firmava l’enciclica ‘Populorum progressio’, documento di non facile stesura se ci sono occorsi sette ripensamenti - e relative modifiche - nonostante la collaborazione di eminenti sociologi, di varia provenienza.
L’enciclica tratta, come dice il titolo, di un equilibrato e corretto sviluppo dei popoli. “E’ il problema - disse il Papa - più grave e urgente del momento”. E ce ne rendiamo conto solo adesso, perché siamo tenacemente legati al materialismo che soffoca ogni genuino impulso di solidarietà umana e non pone un efficace rimedio alle disuguaglianze sociali, né corregge lo sfrenato liberismo economico. E vediamo dove ci ha portati l’egoistica concezione economica, manovrata colpevolmente, - ha sottolineato il Presidente degli Stati Uniti Obama - dalla grande finanza, con le banche in testa.
Per restare in argomento, ecco l’antidoto che suggerisce Benedetto XVI nella sua recente enciclica ‘Caritas in veritate’: “Lungo la storia, spesso si è ritenuto che la creazione di istituzioni fosse sufficiente a garantire all’umanità il soddisfacimento del diritto allo sviluppo. Purtroppo si è riposta un’eccessiva fiducia in tali istituzioni, quasi che esse potessero conseguire l’obiettivo desiderato in maniera automatica. Le istituzioni, da sole, non bastano perché lo sviluppo comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità” (CV n. 11). In parole povere, ognuno faccia la sua parte. E noi sappiamo come - ce lo ha indicato don Carlo -: ‘Insegnagli a pescare’ Ma non basta una lenza. Ci vuole un barca. Dei soldi, dirà qualcuno. Ma finché dura questa crisi...come pensare allo sviluppo? Eppure insegnava Giovanni Paolo II: “Il progresso o è di tutti o non lo sarà per nessuno”.
Nel suo piccolo, l’OPAM sta facendo la sua parte con progetti concreti di sviluppo, affidandone la realizzazione direttamente a persone che sono di questi Paesi o che, come i missionari, religiosi e laici, operano accanto a questi fratelli condividendone speranze e fatiche.

Mario Sgarbossa

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