martedì 16 novembre 2010

Il fiore della Speranza

Nel week-end dei Santi, dopo la visita al cimitero per una preghiera sulle tombe di tante persone amiche che ho accompagnato nell’ultimo viaggio, sono stato al Museo Romano delle Terme. I musei archeologici, con le loro esposizioni di frammenti di civiltà sepolte, mi hanno sempre dato l’impressione di essere parenti stretti dei cimiteri. Statue, sarcofagi, lapidi, sepolcreti di famiglia… sono i pezzi più numerosi, quasi a testimoniare il drammatico sforzo di sfuggire all’oblìo che la morte stende sulle vicende umane. Città come Roma continuano a vivere qualche metro al di sopra di immense necropoli. Ci affaccendiamo nel caos quotidiano sulle stesse aree che custodiscono nel buio della terra l’eco ormai spenta di vite tanto simili alle nostre. Una piccola lapide mi ha colpito particolarmente. Due genitori ricordano il figlio ventenne da Plutone rapito al loro affetto e smarriti si domandano: “Dove è fuggita la tua bellezza, la grazia delle tue membra?” per amaramente constatare: “Di te solo un pugno di polvere rimane”. Questa grande civiltà, le cui radici ancora nutrono il nostro vecchio continente europeo, non ha altra risposta di fronte alla morte, che tutto, come una inesorabile livella, sembra appiattire: …un pugno di polvere! Sono uscito dal museo con addosso una angosciante sensazione di tristezza. “Certo, però noi abbiamo la fede, noi crediamo nella risurrezione…” mi dicevo. Eppure non sembravano pensieri sufficienti a rassicurarmi dopo quell’immersione nel regno delle ombre e di fronte all’evidenza della caducità dell’umana condizione che tutti ci accomuna. Come tanto meno servono a darci speranza quelle frasi che a volte ancora campeggiano all’ingresso dei vecchi cimiteri: “Hodie mihi, cras tibi” (Oggi tocca a me, domani a te). Non è fonte di grande consolazione ricordarci che il nostro cammino, segnato da tante dolorose e a volte strazianti perdite, sfocerà in un pugno di cenere. Comunque la si guardi, umanamente la morte, in apparenza la cosa più certa e naturale che ci sia, resta un grande enigma. E in noi qualcosa si ribella al trionfo del nulla e non l’accetta.


Qualche ora dopo, celebrando l’Eucaristia, mi è venuta in soccorso una parola del Signore: “Questa è la volontà di Colui che mi ha mandato: che Io non perda nulla di quanto mi ha dato” (Gv 6,39) . In questa parola mi sembra ci sia una grande luce per il nostro cammino a volte minato dalle incertezze e dai dubbi. Il Signore ci conferma che nulla può essere perduto definitivamente, nessuno e niente può essere ridotto al nulla. Tutto è in potere del Signore della Vita, a cui apparteniamo e nelle cui mani è posta la nostra vita e la nostra morte. Già prima, dall’abisso del suo dolore, Giobbe, il simbolo dell’uomo dei dolori visitato dalla sventura e dalla morte, aveva lanciato il suo grido come una sfida: “Io so che il mio redentore è vivo”. E’ questo il dono che la fede ebraico-cristiana offre all’umanità. Dio, il Vivente, ci ha creati per la vita e ce la dona in Gesù suo figlio, per noi e per la nostra salvezza morto e risorto. Ciò che ogni persona si porta dentro, come è testimoniato fin dagli albori della presenza umana su questa terra (ad es. nel culto dei morti), quella invincibile speranza che non è possibile che tutto finisca in un pugno di cenere, quel desiderio struggente di comunione con i nostri cari e con gli altri che a volte all’improvviso e inspiegabilmente ci pervade, forse altro non sono che l’anelito e il gemito della Vita che in noi va germogliando, mentre la vecchia creatura lentamente si consuma per essere trasformata da Dio, che ci vuole ad immagine del Figlio suo, l’unico tornato dal regno dei morti, garanzia che anche per tutti noi in Lui c’è Vita e Risurrezione dai morti. Se lo vogliamo…
La vita non ci appartiene: la possiamo solo ricevere come dono dalla fonte che è Dio. Per questo l’uomo quando perde Dio perde se stesso.
Mi confortano questi pensieri, mentre li condivido con voi, cari amici, specialmente con coloro che in questo anno sono stati segnati dal dolore del distacco dai propri cari.
Per tutti coloro che ci sono stati compagni di viaggio e ci hanno preceduto nella luminosa dimora che il Signore ha preparato per i suoi amici; per gli amici dell’OPAM che già sono andati a raccogliere il premio della loro generosità verso i poveri; per i tanti bambini di cui ci occupiamo stroncati dalle malattie o dalla violenza; per chi resta solo con il suo dolore: per tutti un grato ricordo e una preghiera. Insieme all’augurio che fiorisca in tutti noi il fiore della Speranza a rassicurarci che la vita è più vera e più forte di ogni morte.
Don Aldo Martini

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