venerdì 11 febbraio 2011

Elogio della Responsabilità

 Cari Amici, non spaventatevi del titolo altisonante. Non scriverò un trattato, ma vorrei condividere con voi qualche semplice suggestione partendo dai fatti della nostra vita, che ci aiutino a far chiarezza dentro di noi. Viviamo una stagione di confusione in cui, quando ci sembra di aver toccato il fondo, scopriamo che il pozzo è ancora più profondo di quanto pensassimo. E’ frequente sentire espressioni del tipo: “Dove andremo a finire di questo passo? Non ci sono più valori che tengano… Le famiglie si sgretolano… La crisi non arretra… La disoccupazione spaventa… La corruzione dilaga… La volgarità trionfa… Che futuro attende i nostri giovani?”. E istintivamente i soggetti colpevoli di ciò che a nostro avviso non va sono sempre gli altri. Che sia il Governo, la Chiesa, la classe politica, i mezzi di informazione, la TV, il mondo della finanza, i flussi migratori, i lavoratori di altri Paesi… sembra che la cosa più importante sia individuare un colpevole su cui scaricare - come un capro espiatorio - tutta la responsabilità di ciò che non va o non ci piace. E il colore predominante delle lenti attraverso cui osserviamo il mondo è decisamente scuro. Siamo sulla soglia della depressione.
Non sarebbe più fruttuoso se provassimo invece a chiederci: “Ma io, che posso fare in questo contesto?”
Ho apprezzato, come molti italiani, il contenuto del messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica, il quale, di fronte al malessere diffuso specialmente tra le nuove generazioni, con molto realismo ha chiamato tutti ad assumerci in questo momento difficile le nostre responsabilità, senza cedere al fatalismo e senza tirarci indietro, indicando nello spirito di condivisione la condizione per un salto di qualità che ci permetta di fronteggiare e cogliere le opportunità di questo grande momento storico. Il Presidente vede infatti come una conquista della nostra comune eredità il rinascere di antiche civiltà in Asia, America Latina e in Africa, il sollevarsi dall’arretratezza, dalla povertà, dalla fame di centinaia di milioni di uomini e donne nel primo decennio di questo millennio. Paesi e popoli con i quali condividere lo slancio verso un mondo globale più giusto, più riconciliato nella pace, anche se il compito appare per molti nostri Paesi estremamente impegnativo.

Mi pare di aver colto un invito all’ottimismo, non quello di bassa lega, ma legato ad una condizione imprescindibile: che cioè ciascuno faccia la sua parte, con lealtà, sapendo pagare di persona, mettendo a tacere la furbizia e gli interessi di parte. “Facciano tutti la loro parte: quanti hanno maggiori responsabilità - e ne debbono rispondere - ma in pari tempo ogni comunità, ogni cittadino”. Questo significa essere responsabili, cioè capaci di dare risposte positive quando, dove e come la vita ce lo chiede, senza scaricare il barile sulle spalle degli altri. Questo vuol dire essere “umani”: perché la responsabilità affonda anzitutto le sue radici nella comune appartenenza al genere umano.
Ma è anche virtù squisitamente cristiana, perché quest’umanità non è fatta di persone condannate ad una lotta feroce per la sopravvivenza a qualunque prezzo, ma chiamate ad essere fratelli e sorelle perché figli di uno stesso Padre. La condivisione e la solidarietà o - come preferisco chiamarla - la fraternità diventano perciò una necessità, non un lusso per mettere a tacere la coscienza di fronte alle insopportabili ingiustizie. Il Signore Gesù dicendo ai suoi discepoli: “Voi siete la luce del mondo, siete il sale della terra indica la loro precisa responsabilità, che è vivere fraternamente. Una leggenda ebraica narra che ogni uomo viene sulla terra con una piccola fiammella in fronte, una stella accesa che gli cammina davanti. Quando due uomini si incontrano le loro due stelle si fondono e si ravvivano. Quando invece un uomo per molto tempo è privo di incontri, la sua stella pian piano si fa smorta fino a che si spegne (E. Ronchi). La nostra luce vive di incontri, di relazioni. La vita di figli e di fratelli è lo splendore e il sapore stesso della vita. Se la luce è spenta, se il sale è insipido a che servono? A nulla. La nostra vita rischia di dissolversi nel nulla, se non siamo capaci di rendere testimonianza alla luce. Pur consci che non siamo noi la sorgente della luce (e questo ci deve mettere al riparo da ogni integralismo fondamentalista) sappiamo che il servizio che possiamo offrire all’umanità è in definitiva la Luce di Cristo, il suo Amore. La nostra responsabilità ha qui la sua sorgente e il suo fine ultimo. “Se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto, allora brillerà fra le tenebre la tua luce”, ci ricorda il profeta Isaia.  E’ quanto vorremmo che fosse sempre più l’OPAM e ciascuno di noi: una piccola risposta, un’umile luce amica.
Don Aldo Martini




Nessun commento:

Posta un commento